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Questo blog è stato solo un esperimento. Il dietro le quinte di una roulette russa

28 Mar

Questo è l’ultimo post del blog. Il blog che è stato un esperimento. Un lancio per il libro. Il libro stesso. Il making of di un anno. Una bomba ad orologeria.

Era il 28 marzo 2012. Ero in camera da solo. Ho toccato una penna. L’ho sentita fredda. Era di metallo. E io di carne. Carne debole. Carne macellata. Carne usata. Condita in tante salse diverse. Carne che vuole essere pesce. Carne che vuole essere altro.

In quel momento mi sono detto: “suicidio o gioco”. Mi sono dato un anno. Un anno per finire il libro o per farla finita veramente.

Ogni giorno ero là. A pensare al libro e a pensare al suicidio. C’era la sceneggiatura del libro. C’era la sceneggiatura del suicidio. Tutto era già allestito. Non sapevo soltanto a quale spettacolo avrei partecipato.

Avevo bisogno d’aiuto. Avevo bisogno di sentirmi utile.

Avevo bisogno di coccole. Avevo bisogno di affetto adulto.

Avevo bisogno di sentirmi bravo. Chiedevo soltanto di essere bravo.

Più sentivo il bisogno e più volevo farla finita. Suicidio è stata la parola che più ho sentito nella mia vita. Libro la seconda nel mio cervello. Volevo capire se la seconda parola potesse superare la prima. Se il libro riuscisse ad attutire quella voglia di volo. E di caduta.

Ogni volta che scrivevo una riga pensavo al suicidio. So benissimo come avrei voluto andarmene. Ogni particolare era ben pensato, strutturato, scritto. Ho viaggiato per stare fermo. Ho viaggiato per capire dove farla finita.

La cosa bella è che più pensavo al suicidio e più pensavo al libro. Il mio gioco stava diventando la mia vita. E, nonostante le mie esitazioni, il libro cresceva e la voglia di suicidio diminuiva. E poi tornava un po’. Diminuiva parecchio e tornava ancora. Lo zaino era sempre aperto.

Sono stato esitante per tanti secondi. Tanti giorni. 364 per l’esattezza. Sono stato fino a ieri a chiedermi se il libro avesse e abbia senso. Se non sia meglio soltanto dire: “sai che c’è? Ciao a tutti”. Lo zaino è ancora aperto.

Voglio essere tutto e alla fine non sono niente. Questa la base del suicidio. Non avevo un’identità. Non sapevo chi fossi e speravo che la valigia mi potesse dare una mano.

Ma una cosa mi è sempre stata chiara: sono una persona fedele a me stessa. Dura a sufficienza da non mettere da parte il mio orgoglio e chiedere proroghe. Nessun legittimo impedimento. Non volevo rimandare.

Al che ho aperto il blog. Avrei avuto la sicurezza matematica che in un anno avrei dovuto finire il libro. Un libro fatto di 12 mesi, da riscrivere in 12 mesi. Mi sembrava un patto sano. Pericoloso ma sano.

Almeno non avrei pensato per 364 giorni: “la faccio finita adesso”. Avrei avuto del tempo per decidere. Per vedere nuovi posti. Per vedere Mando e Copenaghen, per vivere il sud della Francia, per stare a Londra e andare in Galles. Per vivere un po’ nella mia città. Milano. Avrei avuto tempo per salutare tutte le persone a cui voglio bene. O quasi.

Negli ultimi mesi mi sono sentito alle strette. Una decisione era urgente.

Ero con Juju in Francia e ho iniziato a piangere. Non mi sono fermato per due giorni.

Mia madre era in ospedale. Speravo morisse. Speravo ci lasciasse le penne perché così mi sarei sentito meno in colpa nei suoi confronti. Non avrei avuto giustificare il fatto che sia uno stronzo egoista. Un narciso incredibile. Che chiede affetto a tutti i costi e poi se ne scappa lontano dove non possa ridare niente in dietro. Speravo morisse. E non è morta.

Quando era chiaro che mia madre non sarebbe morta ho sentito addosso il peso della sua vita. Ho sentito che avrei comunque dovuto decidere entro il 28 marzo 2013. Per conto mio. Con la mia testa. Che palle. Con la mia testa.

Sono ritornato a Milano e il libro era quasi finito. Mi piaceva. Lo trovavo interessante, magari un po’ noioso. Ma intelligente. Per niente ruffiano. Anzi forse troppo poco ruffiano.

L’ho letto a mia madre. Dopo cinque pagine si è addormentata. Io leggevo e il suo respiro diventava sottile. Speravo fosse crepata. L’ho sperato per diverso tempo. Ho letto un intero capitolo sperando fosse morta.

Poi si è risvegliata. Gli antidolorifici le facevano male. E facevano male anche a me.

L’unica persona che ha capito quello che mi passasse nella testa è stata la mia nipotina Giulia. E forse una persona di nome Paola. Anche se Ted era sempre con me.

Ho pianto in tanti bagni di Milano. Ma nessuno mi ha mai visto. Nessuno ha mai sentito il suono delle mie lacrime. Forse Giulia. Lei ha nove anni e io trenta. Sono un coglione. Un coglione che ha bisogno della comprensione di una bambina.

Da quel giorno è riaffiorata la voglia di farla finita. Il libro non mi convinceva. Mi faceva quasi schifo. Lo trovavo inutile. Lo trovavo di poco conto.

Ho mandato 12 capitoli su 13 ad alcuni amici. Non ho detto che il vero libro era il 13esimo capitolo. La fine era tutto. Non sapevo neanche se l’avrei finito. E intanto il tempo scorreva.

Pochi giorni. Non so che faccio. Non so dove vado. Non so la fine del libro. Non so la fine della sceneggiatura. Cazzo non so niente.

E il blog era là a ticchettare. A scandire il tempo. Un orologio era appeso alla parete a ticchettare con il blog.

Il blog è stato la mia miccia. Una miccia lunga 364 giorni alla fine della quale sarebbe dovuto essere chiaro il finale della storia.

L’ho usato come esperimento. E’ stato un modo per introdurre nel mio mondo. Introdurre a un linguaggio. A delle emozioni piccole o grandi. A far capire man mano chi fossi. Ho chiesto affetto e non sapevo quanto tempo sarebbe durato.

Se me ne fossi andato il blog sarebbe stata un’arma contro tutte le persone a cui ho chiesto affetto inutilmente. A cui chiedevo di esserci e che non c’erano.

Ma era psicopatia. Era un modo per dire: “avevo ragione io”. Un modo di vincere senza giocare. Lo strumento perfetto per il baro perfetto. Un modo per non affrontare la paura di vincere. La paura di perdere. La paura di giocare. La paura di dire chi sia. La paura di respirare. La paura di sapere trattenere il respiro durante anni di apnea. La paura di essere fin troppo bravo a stare fermo. Fermo al mio angolo, a provare di essere forte.

Il punto è che io non sono perfetto. Non sono mai stato perfetto. Questo blog è pieno di errori. Li ho lasciati. Li ho sentiti. Continuerò a farli. Il libro è pieno di errori. Ma non fa schifo. Non è perfetto. La perfezione non esiste.

Avevo bisogno d’affetto e l’ho chiesto con il blog. E’ stato il making of di una sceneggiatura di cui non sapevo la fine. E’ stato il mio esperimento.

Il blog era parte del libro. Ne era una parte fondamentale. Forse l’unica che molte persone avrebbero letto.

Così mi son detto.

Oggi il blog chiude ma io ho deciso di giocare. Ho deciso di non farla finita. Oggi ho deciso di sorridere, con il mio herpes a ricordarmi che sono la cosa più lontana dalla perfezione. Ho capito che vincere non è sopraffare. Che la vita è un duetto. Che la salvezza è la semplice voglia di posare la penna e dirsi: “sì, Sergio sei stato bravo. Non perfetto, ma bravo”.

A questo punto il blog è chiuso. Conterrà soltanto degli estratti del libro che sto cestinando. Parti del libro che non saranno nel libro.

Parti del libro che sono in piedi e sorridenti dopo il 28 marzo 2013.

Gioco. Dico io.

E un po’ odio sto cazzo di libro. E questo cazzo di ultimo post. Che poi è in un certo senso il primo capitolo del libro stesso.

Almeno questo è quello che mi dico mentre mi chiedo che differenza ci sia tra immaginazione e realtà.

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